Ero andato ad assistere ad un convegno d’architettura in occasione di un’edizione del Saie del quale Bruno Zevi era moderatore. Alla conclusione della serie di interventi “il Professore” chiese alla platea se c’era qualcuno che desiderasse porre delle domande ai relatori o esprimere un pensiero in relazione ai temi trattati connessi al rapporto tra architettura di nuova edificazione ed il restauro. Alzai la mano e lui mi dette la parola. Mi ricordo, lucidamente, che parlai di Gaudí e della mia posizione di non condivisione della metodologia d’azione per il completamento dell’opera della Sagrada Familia a Barcellona. Zevi si complimentò con me, giovane studente d’architettura, per il brillante e preciso intervento che disse di condividere completamente». Fu una mattinata intensa e densa di stimoli. La mia felicità era alle stelle! «Per gli studenti di oggi forse il nome di Zevi rappresenta solo uno sfumato ricordo, ma per la mia generazione ha rappresentato indubitabilmente una vera e propria colonna portante per la fondazione del nostro credo architettonico. La storia non si conclude qui!
Finito il convegno mi trattenni un po’ in fiera e poi m’incamminai verso la stazione per fare ritorno a Firenze. Giunto ai binari intravidi in lontananza il Professore. Allungai il passo, lo seguii, salii sul treno dietro di lui e mi sedetti nel suo scompartimento, ricordo in prima classe. Io avevo il biglietto di seconda ed il controllore, dopo poco, mi fece pure la multa. Che figuraccia! Zevi non si accorse della mia presenza. Si mise i suoi piccoli occhiali da lettura, aprì il giornale e cominciò a leggere. Io, seduto proprio di fronte, dopo un po’ mi feci coraggio e battei con un dito sul giornale. Lui abbassò il giornale, mi guardò incurvando il mento per traguardare con gli occhi il bordo superiore dei piccoli occhiali e con voce sicura mi disse: “Ma tu sei il giovane che ha parlato di Gaudí! Bravo, bravo! Di dove sei?” Io gli parlai un po’ di me, dei miei sogni, delle mie aspirazioni e poi gli chiesi, quasi a bruciapelo: “Come si fa a scrivere sulla sua L’Architettura?” Lui mi guardò con intensità, sorrise e poi mi disse: “Vorresti scrivere di architettura?” “Sì”, risposi io. “Allora proviamoci!”, asserì lui. “Prova a cercare del materiale giusto per L’Architettura e fammelo vedere; quando avrai trovato un progetto intelligente, organico, capace di raccontare ed esprimere reale contemporaneità ti faro scrivere sulla mia rivista!”. Arrivati a Firenze, scesi dal treno con la sensazione di essere stato un’ora in paradiso!».
Uno dei padri della storia d’architettura contemporanea aveva parlato con me, ma non solo, mi aveva detto che avrei potuto scrivere per lui! Strepitoso! Cominciai quasi subito la mia ricerca. Iniziò, dunque, una serrata corrispondenza epistolare tra me e il Professore che, o per un fatto o per un altro, non era mai soddisfatto di quanto proponevo alla sua attenzione. «Ricordo che trascorse quasi un anno da quando lo avevo incontrato e le mie lettere e le sue risposte si continuavano a sommare. Dopo questo lungo periodo di ricerche iconografiche avevo conosciuto quasi tutti gli architetti italiani più in vista di allora. Finalmente arrivò il grande momento! Aprii l’ennesima sua corrispondenza, con poca fiducia, ma invece trovai scritto: “Caro Micheli ci siamo! Hai trovato la giusta strada! Mandami subito un brillante testo e se sarà intelligente lo pubblicherò e comincerà la tua avventura”.
Così iniziai a collaborare con L’Architettura a Roma. Avevo 23 anni e Zevi divenne per me Bruno: un meraviglioso consigliere, un amico capace con ogni suo gesto o parola di trasmettere il suo entusiasmo per lo spazio, per la costruzione di evoluti pensieri.
Tratto dal volume “Simone Micheli from the future to the past”
Che grandissima emozione. Complimenti!
Francesca