Abitare- essere al mondo


Ieri a Milano, in occasione di Eire, ho incontrato l’amico Rolando Gualerzi, uomo che pur appartenendo alla terra, come me, vive insieme a me sospeso intellettualmente tra la realtà ed il sogno, tra il libero fluttuare legato alla nostra bolla spazio temporale e la ricerca di impalpabili verità, che abitano fuori e dentro di noi.
Dopo un positivo scambio di riflessioni sul prossimo possibile fare, mi dona una rapida quando ispirata lettura di favolosi frammenti di pensiero che completo in tarda notte al rientro dalla meravigliosa prima della “Luisa Miller” di Giuseppe Verdi, con l’altrettanto straordinaria regia di Mario Martone, al Teatro alla Scala.
Bellissimi, pieni, degni, intelligenti, virtuosi e iperrealisti quei testi!
Per questo li porto all’attenzione di chi ha desiderio di leggere per ascoltare, di leggere per sottolineare, di leggere per riscoprirsi e ripensare il presente guardando al futuro.
Ditemi se non e’ un grande uomo con un grande cuore!
Buona lettura,
Simone

“Abitare non vuol dire conoscere.
E’ sentirsi a casa, tra visi che non ci ignorano e che sappiamo nei loro sguardi conservare le tracce dell’ultimo sguardo di saluto; ospitati da uno spazio che ci ri-conosce tra le cose che annunciano il nostro essere stati con loro.
Abitare è ricordare dove deporre l’abito; dove sedersi per assumere il cibo e incontrare gli altri, l’Altro; dove dire e u-dire: cor-rispondere.
Abitare è trasfigurare le cose, caricandole di sensi che trascendono la loro oggettività pura, sottraendole dall’anonimia che le rattiene nel loro essere nel mondo, qui e ora, per ri-lasciarle ai nostri -e fra i nostri- gesti mondani e ‘abituali’, che accordano al nostro corpo il sentirsi “a casa”, fra le ‘sue’ cose, presso di sé.
Abitando il mondo siamo introdotti nella sua aletheia: verità (come svelamento) che non è mai al di là di ciò che percepiamo. E grazie a ciò che diciamo che il nostro corpo è nella verità, perché è nel mondo che il nostro corpo fa mondo, essendo l’evidenza l’esperienza della verità.
Il nostro corpo, abitando il mondo, contrae abitudini le quali, nella loro successione, compongono quell’ordine a-temporale dei ricordi che portano al ri-conoscimento delle cose del mondo, perché ri-cordare è ri-accordare: letteralmente: rimettere nel cuore (nella memoria).
E’ solo abitandolo e ricordandolo che il mondo si origina, per noi, nella sua giusta forma. Perché è la nostra quotidiana esperienza che gli dà origine. Solamente abitandolo con il corpo che posso conoscere quel mondo che ci indica e restituisce le nostre possibilità.
Se pensiamo alle mani e non alla loro conformazione scheletrica, muscolare o nervosa, ma alla loro capacità di afferrare oggetti, cose, o di lasciarsele s-fuggire capiamo qual è il vero rapporto con il mondo che il nostro corpo costruisce.
Così pure la forza che hanno le gambe di camminare non è solo data dalla sua posizione anatomica, ma anche- molto spesso- dalle cose che vogliono raggiungere, insieme al cuore o quelle dalle quali vogliono allontanarsi.
“Avere un mondo” è qualcosa di molto di più che “essere al mondo”.
E’ vero che tutte le cose sono al mondo, ma il nostro corpo è al mondo alla maniera di colui che ha un mondo, entro il quale si proietta ed è per questo ospitato.
Perché il nostro corpo è molto di più delle possibilità che gli consentono i sensi e il grado di vitalità non è regolato da essi, ma dall’interesse per il mondo che lo fa vivere sempre al di sopra o al di sotto delle possibilità dei sensi.
Per chi scopre di essere ammalato il mondo perde quella fisionomia che fino a pochi giorni prima aveva dimostrato.
Viene a mancare quel dialogo fra mondo-corpo- mondo grazie al quale le cose, i giorni, gli affetti si caricavano delle intenzioni del corpo.
E non è più la realtà del mondo, ma la possibilità di viverlo a costringerne l’interesse”.

Di Rolando Gualerzi, questo testo è liberamente tratto da letture di testi heideggeriani e di Umberto Galimberti.

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